La campana di vetro di Sylvia Plath, illustrazioni di Anastasia Stefurak, Classici Mondadori
"Sylvia Plath saw the world as it is
Sylvia Plath saw it wasn't no business of hers
She was alright"
Robin Hitchcock, Virginia Woolf
Una ragazzina magra, la figura esile e aggraziata, sorridente e orgogliosa della sua borsa di studio di studente eccellente, cammina sicura per le strade del centro scintillante di Manhattan, ai piedi le nuove scarpette nere, di vernice, nell'estate "strana, soffocante, l'estate in cui i Rosemberg morirono sulla sedia elettrica".
Questa è la storia di Esther e anche quella di Sylvia, la sua autrice, frammenti di una vita vissuta e spezzata, sullo sfondo una società guasta, un percorso che già al suo inizio contiene i segnali di una fine inesorabile.
Esther, sembra destinata ad una vita felice, il suo futuro, lei che sta uscendo dall'adolescenza, pieno di promesse. Un brillante curriculum accademico e poi un domani nell'editoria, nel giornalismo patinato.
E la grande ambizione, mai celata, di scrivere.
Ma già nell'incipit si intravede una crepa, un vago sentore di morte, morte che è ingiusta e crudele in quell'America maccartista degli anni '50. Un'ombra che prima aleggia sullo sfondo, una nuvola cupa in un cielo azzurro e che poi piano piano scende a lambire il corpo e la mente della giovane protagonista.
Un serpente strisciante, gonfio di veleno, percorre le pagine e ci sibila che Esther-Sylvia non avrà mai un futuro: questo non è un romanzo di formazione.
Le immagini sempre più scure, sulfuree, prendono il sopravvento, per contaminare a poco a poco l'essere della protagonista.
Immersi da subito nella magia di una scrittura, affilata come un bisturi, la vediamo dunque abbandonare l'idea di una vita nella Grande Mela, la mente già altrove e i vestiti che simbolicamente l'hanno accompagnata nella metropoli, diventare metafora della sua rinuncia: "Un capo alla volta, affidai tutto il mio guardaroba al vento notturno, e sfarfallando, come le ceneri di un caro estinto, i brandelli grigi vennero trascinati via, per atterrare qua e là, dove esattamente non l'avrei mai saputo, nel cuore oscuro di new York".
Il cammino di Esther continua entrando nel suo personale ascensore per l'Inferno, conscia della sua incapacità di integrarsi in una realtà fatta solo di crudeltà, di tabù che prevedono ruoli prestabiliti per uomini e donne, di continui tentativi di omologazione.
“Per chi è chiuso sotto una campana di vetro, vuoto e bloccato come un bambino nato morto, il brutto sogno è il mondo.”
Esther diventa un oggetto fragile e prezioso, il vetro sotto il quale è rinchiusa è trasparente, una barriera evanescente attraverso la quale osservare la vita da lontano, protetta, ma anche prigioniera.
E lì la vediamo come una farfalla dibattersi e a poco a poco smettere di volare, restare senza respiro, alla ricerca disperata di una normalità, che le permetta di far parte della vita e allo stesso tempo attirata sempre più dal fascino seduttivo della morte, cullata dalle onde azzurre dell'elettroshock.
Senza pietà assistiamo ai continui, ossessivi, maldestri tentativi degli altri per riportarla indietro: l'incontro con deliranti neuropsichiatri, i ripetuti ricoveri, il tentativo di suicidio, l'uso-abuso dell'"elettroterapia" per spegner in lei ogni emozione, ogni affermazione del proprio prepotente IO.
Sylvia lascia il finale del racconto aperto, lasciandoci credere che oramai fuori dalla campana di vetro, sia possibile ad Esther affrontare la vita, con una nuova, adulta, rassegnata consapevolezza, “Dovrebbe esistere un rito, pensai, per celebrare la seconda nascita – per quando si è stati rattoppati, ricostruiti e omologati per la strada.”
Faccio un respiro profondo e non riesco a non commuovermi perché purtroppo è impossibile dimenticare che appena un mese dopo aver terminato di scrivere queste pagine Sylvia si suiciderà, la sua sensibilità, il suo immenso talento, incompatibili con la crudeltà di una realtà che ignora la poesia.
“Forse l’oblio, come una neve gentile, avrebbe dovuto attutire e coprire tutto. Ma quelle cose facevano parte di me. Erano il mio paesaggio."
E mi resta il suo ultimo grido:
"Io sono, io sono, io sono."
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